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29 Novembre 2018

In cima alla lista delle qualità deve esserci una ‘vision’ chiara: il capitano di una nave deve sapere dove sta portando il suo equipaggio.

Laureato in Scienze dell’educazione e della formazione degli adulti, Damiano Frasson si occupa da 25 anni di formazione, motivazione, consulenza e coaching ed è titolare di Gruemp, società da lui fondata nel 1993 insieme con il fratello Claudio. È autore di “Allenare le competenze trasversali. Apprendimenti e risultati di un percorso formativo” e dell’audiolibro “Avventura Vincente – 7 storie per la tua motivazione”.

Quali sono le caratteristiche che un manager deve avere per essere riconosciuto come leader dai suoi collaboratori?
In cima alla lista c’è la vision chiara: il capitano di una nave deve sapere dove sta portando il suo equipaggio, e così è per un manager. Per acquisire credibilità e rivestire il ruolo di guida, il suo gruppo deve percepirlo sicuro sulla direzione intrapresa. Spesso, tra i problemi che incontro quando chiedono il mio intervento per facilitare il cambiamento in azienda, c’è il disorientamento
del management, che talvolta non sa dove indirizzare il proprio focus e non riesce a ottenere dalle proprie risorse quello che vorrebbe.

Al secondo posto?
La capacità di costruire relazioni. Non si tratta solo di competenze motivazionali, ma di creare feeling, ci vuole capacità di ascolto e intelligenza emotiva. In inglese si chiama team building: ciascun componente del gruppo deve sentirsi protagonista di quello che fa. Oggi un buon leader dovrebbe avere un approccio simile a quello che un allenatore ha con la propria squadra, e cioè gestire la situazione rispettando l’individualità e le competenze specifiche di ciascuno, cercando di entrare il più possibile in empatia con i membri del team, upportandoli emotivamente, acquisendo così in autorevolezza. Non è più il tempo di manager che impongono una guida autoritaria e accentratrice, tipica di quei self-made man di una certa età che hanno realizzato con grandi sacrifici veri miracoli imprenditoriali, ma che non riescono a delegare: oggi è vincente un modello di leadership democratica e partecipativa, basata su un dialogo aperto, tipico di una nuova generazione di manager di successo. Per fare un esempio, l’approccio di Andrea Agnelli, che da subito si è avvalso di un team di validi collaboratori ai quali ha delegato diverse responsabilità, appare funzionale. Ma mi vengono in mente anche Matteo Marzotto, Piersilvio e Marina Berlusconi, Alessandro Benetton, Alessandra Polin, manager che mi sembra abbiano scelto la strada di una leadership etica e condivisa, che portano avanti con una certa compostezza.

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Quanto è importante la coerenza in un leader?
Moltissimo, ma attenzione a non farla diventare una bandiera. La condotta di una guida deve sempre essere in linea con i valori espressi, così da essere condivisibile per i suoi collaboratori e ispirare in loro fiducia. Ma attenzione, questo non deve significare immobilismo, non è sana la coerenza a ogni costo: un leader può cambiare idea, e se le circostanze impongono la ricerca di un nuovo equilibrio può, anzi deve, cercare di adattare sé e la squadra a scenari inediti. L’importante è mantenere quella che chiamo l’“etica del leader”, e cioè la capacità di gestire il proprio team indirizzandolo verso un obiettivo senza prevaricare le caratteristiche delle altre persone.

Il bravo leader mette in competizione i propri collaboratori tra loro?
Diciamo che struttura strategie competitive finalizzate al risultato comune da raggiungere, sfida i singoli a mettere al meglio in campo le proprie capacità per vincere insieme. Non crea competizione fine a se stessa, per vedere se un collaboratore è migliore di un altro. E poi ci sono le decisioni da prendere… Il problem solving, essenziale per un leader, cioè fronteggiare e risolvere i problemi con lucidità di analisi e fermezza decisionale. Spesso i manager ne sono carenti per timore di sbagliare, ma la capacità decisionale è come un “muscolo” che si può allenare. Nelle attività formative che propongo, ad esempio, vengono date a un gruppo di lavoro attività da svolgere entro un certo tempo, di solito ristretto. E allora, se per risolvere un compito che necessiterebbe
due ore di tempo l’individuo ha solo 40 minuti, ecco che l’urgenza lo costringe a focalizzare l’attenzione sull’essenziale e a fare scelte tempestive, incrementando così la propria capacità decisionale.

Cosa le sembra che soprattutto manchi ai leader di oggi?
La pazienza verso le risorse e le relazioni umane. Spesso i manager sono sotto stress per i continui obiettivi anche a breve termine che devono raggiungere e perdono di vista l’importanza del capitale umano che hanno a disposizione, per sviluppare il quale c’è bisogno di tempo. La capacità organizzativa infatti non è solo nello scegliere gli strumenti tecnici più adatti, ma nel gestire le persone.

Qual è il modo più funzionale per veicolare una critica?
È conveniente effettuare un focus individuale per comprendere quanto una persona ha coscienza della gravità più o meno grande di quello che è accaduto per sua responsabilità: il rapporto individuale tra leader e collaboratore è la via privilegiata per costruire empatia e avere un dialogo aperto. La critica davanti agli altri invece rischia di inibire la persona, che così potrebbe sentirsi sminuita nella sua autostima.

Le aziende italiane stanno lavorando sufficientemente sulla valorizzazione delle soft skill dei propri manager?
In questi ultimi anni è esploso l’interesse per questo tipo di competenze, ma siamo indietro rispetto a paesi come Stati Uniti, Canada, Inghilterra per non parlare di Norvegia, Svezia e Danimarca, dove le soft skill si insegnano a scuola.

In che cosa consiste un intervento di riorientamento aziendale da parte di una società come quella che guida?
Dipende dalle esigenze, spesso si tratta di aiutare il management ad adattarsi ai cambiamenti del mercato. Oppure a favorire una riorganizzazione valutando in modo approfondito le competenze delle risorse per aiutarle a crescere. Certo è che un intervento ha senso solo se coinvolge, in qualche modo, anche i vertici dell’azienda: mi è capitato di rifiutare lavori nei quali mi veniva richiesto dai “capi” di motivare i collaboratori a raggiungere determinati obiettivi, ma senza un reale interesse da parte loro di partecipare alla formazione. Ma se un leader vuole ottenere dei risultati dalle risorse, lui per primo deve dare l’esempio.

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